martedì 20 novembre 2012

Filosofia del Viaggio / I. Percorrere lo spazio: viaggio e spostamento


 


 Nel suo percorrere lo spazio esteso, l’uomo ha due modalità fondamentali: lo spostarsi, ed il viaggiare. 

   Possiamo attuare questa generalizzazione, riducendo l’infinita varietà del percorrere il mondo, e non solo, da parte dell’uomo, in virtù della constatazione che ogni movimento implica un quantum percorso nell’estensione. Lo spostamento è quello che avviene in spazi limitati, il viaggio negli spazi vasti. L’uomo si sposta da una camera all’altra, ma viaggia verso altre nazioni. Ma, un’altra distinzione fondamentale fra i due concetti è quello della diversa natura delle esperienze vissute, in questi moti. 

   Sembra che lo spostamento abbia in sé il tratto del moto nei luoghi familiari, che non riservano sorprese. Diversamente, invece, avviene per il viaggio. Esemplificazione possibile è quella dei ‘diari di viaggio’, manifestazioni letterarie del bisogno di elencare il nuovo e lo sconosciuto di cui, viaggiando, si è avuta esperienza. Per contro, non abbiamo ‘diari di spostamento’, ma studi scientifici sul moto. Per andare a lavoro, ci si sposta in treno, ma non si viaggia, almeno secondo l’accezione di queste parole che qui assumiamo.

    Il pericolo, l’imprevedibilità del viaggio è già presente nell’etimo della parola. Il ‘viaticum’ latino è il bagaglio necessario, ciò che può servire, che può tornare utile durante il viaggio. Il vago contenuto oggettivo, l’indeterminatezza di ciò che in questo gruppo possa rientrare, è il riflesso dell’impossibilità di anticipare gli eventi di un viaggio. Il viaggio è imprevedibile. Il suo tramonto, la scomparsa del viaggio, o la sua trasformazione, si palesa nella standardizzazione del viaticum. La prevedibilità del visitare altri luoghi sovrasta e annulla il rischio del viaggio, laddove la preoccupazione principale è quella di non aver dimenticato lo spazzolino da denti. La cura per l’igiene dentale sostituisce l’attrezzarsi per il pericolo dell’ignoto, che di solito è abitato da ciò che minaccia, e si indica timorosi i luoghi sconosciuti (non-percorsi) affermando che hic sunt leones. Ma la paura per ciò che è sconosciuto è oggigiorno ridotta a xenofobia infastidita, a intolleranza per ciò che è ormai conosciuto, ma non accettato. Il viaggiatore dei tempi passati vede nel misterioso anche la minaccia della propria morte.

    Notiamo quindi che le due articolazioni possibili del percorrere spazi da parte dell’uomo che abbiamo indicato sopra, sono in realtà inapplicabili, nel tempo presente. O lo sono solo in via ipotetica, potenziale. Questo perché se il viaggio è inteso come spostamento nella vastità imprevedibile bel mondo, armati del nostro viaticum, scopriamo che il viaggio è scomparso, ed è ridotto a spostamento. 

   Si mantiene il tratto del viaggio mediante il percorrere un quantum spaziale ampio, ma si perde la sua natura imprevedibile. L’omogeneità, il sempre uguale in un continuum, è la determinazione primaria dello spazio percorso nel viaggio, divenuto spostamento, odierno. La ripetizione dell’uguale è la condizione di possibilità del prevedibile, e dell’acquietarsi delle ansie di chi si muove in lunghe distanze. Anche il moto corporeo di chi si sposta, ad esempio in aereo, è caratterizzato dalla staticità. Si viaggia pressoché immobili, allacciati alle poltrone. La stessa presenza di una poltrona, che invita il corpo al riposo e allo star fermo, è una sorta di latente paradosso, un viaticum che potrebbe lasciare piuttosto sorpreso un esploratore del passato, o chi non conosce l’odierno spostamento aereo (perlopiù turistico). Per inciso, ciò non vale per tutti gli spostamenti aerei. Ad esempio, i primi ‘viaggi aerei’, di sperimentazione, si mossero in un elemento alieno e imprevedibile (l’aria privata della terra), non già standardizzato e reso abituale, il che conferirebbe forse a questi pionieristici attraversamenti dello spazio il nome di viaggi, piuttosto che di spostamenti, per quanto limitati fossero i loro voli. 
 
    Ma per tener ferma la nostra definizione di viaggio, ovvero il moto che attraversa uno spazio esteso vasto, e imprevedibile, diciamo che nessuno spostamento aereo odierno può esser chiamato con questo nome. Ciò risulta chiaro anche dal fatto che spesso ci si riferisce alla nostra meta, parlando del viaggio, e non della distanza percorsa per giungervi, nonostante sia probabile che questa sia di gran lunga superiore a tutte le distanze coperte dal nostro moto una volta giunti a destinazione. Un ‘viaggio in America’ ha nel tragitto percorso in aereo (e solitamente è così che oggigiorno questa distanza viene coperta) una sua appendice ovvia e tacitabile. Ovvio è ciò che si sa, di cui si conoscono tute le implicazioni, e tale è lo spostamento turistico odierno. 

    Ma anche dire che si è fatto un viaggio in America, negli Stati Uniti in particolare, risulta forse scorretto, per colui che questo viaggio lo intraprende partendo dall’Europa. Anche nelle distanti distese dell'Atlantico l’imprevedibilità è continuamente ridotta al minimo possibile. Se si ‘sta dai parenti’ ci troviamo spesso in una riproduzione del nostro ambiente familiare, distinta forse da esso per dettagli che risultano interessanti, curiosi, piuttosto che rischiosi. Se si soggiorna in un albergo, conosciamo anticipatamente tutto ciò che quella particolare dimora avrà da offrirci. L’ambiente del cittadino occidentale è riprodotto fedelmente mediante i McDonald’s, i Burger King, i ‘ristoranti etnici’ (in cui ognuno può ritrovare la riproposizione più o meno esatta del cibo di casa), la presenza delle medesime banche, di strutture sociali simili, dei supermercati, e dei prodotti che in essi troviamo ecc ecc. Ci si sposta, a ben vedere, verso una copia più o meno alterata del ‘mondo’ che ci è proprio. E ci si fregia del titolo di ‘viaggiatori’ per il semplice fatto di aver osservato queste minime alterazioni, le sottili divergenze che non permettono la perfetta sovrapposizione dei due spazi.

    È chiaro che non si intende qui sminuire l’importanza, e l’indubbio interesse che le differenze fra i paesi dell’Occidente rappresentino e suscitino. Ma analizziamo qui la trasformazione dello spazio attuata nell’epoca odierna, e constatiamo che, per colui che si sposta, spazi diversi appaiono sempre meno diversi. 

    Sembrerebbe, dunque, che uno dei tratti fondamentali del ‘viaggio’ sia quello dell’esperienza che esso fornisce a colui che percorre distanze. E l’esperire ciò che è diverso è uno dei fondamentali metri di giudizio del mondo. Della propria e dell’altrui statura. Risulta anche, da queste prime e sommarie considerazioni, che il viaggio sia divenuto oggi la visita della destinazione. Lo spostamento che ad essa conduce è un che di standardizzato e omogeneo, privo di sorprese. Ma la condizione di possibilità di questa modalità del percorrere l’esteso, sta nel fatto che quegli spazi siano già stati percorsi, siano già stati conosciuti. E’ quando sappiamo cosa vi è nello spazio che possiamo spostarci in esso, senza doverci preventivamente armare del nostro viaticum, ma semplicemente portare con noi il nostro sempre meno indispensabile bagaglio.

domenica 27 gennaio 2008

Nomi Segreti.


Molte culture adottano quello che può essere definito un nome segreto.
Generalizzando, esso consiste nell' appellativo sconosciuto a tutti, tranne a colui che lo possiede (o è da esso posseduto). Questo è forse il nome con cui si presenterà al Dio, al termine della sua vita. Secondo gli antichi egizi, dimenticare questo nome era, nell’oltretomba, pericolosissimo. Si rischiava di smarrire se stessi.
Esso dunque racchiude la verità più intima del soggetto, celata agli occhi della folla, la quale si riferirà a lui usando, invece, il suo ‘nome pubblico’, quello che, grammaticalmente, chiameremmo ‘nome proprio di persona’. Che, qui, proprio non è.

Il nome di una persona è anche il nome del concetto che di quella persona abbiamo costruito. Mi riferisco a Socrate ( o a Luigi, o Oscar ), mediante questo suo ‘nome proprio di persona’. Esso è riferito al concetto di Socrate. A Socrate come concetto. I suoi attributi ( per come sono stati da me categorizzati ) sono racchiusi nel concetto che lego al suo nome.
Il nome è dunque un qualcosa che ha affinità con la nozione di concetto. Similmente ad esso, in campo teoretico, esso rimanda all’universale, all’ovunque presente. Come i concetti, esso è determinato e costruito mediante categorie.
Heidegger richiama l’attenzione sull’etimologia del termine categoria:


“(...) Il kategoreisthai è l’interpellanza preliminare dell’ente nel discutere (logos) dell’ente. Esso significa innanzi tutto: accusare pubblicamente, dire qualcosa in faccia a qualcuno davanti a tutti. ”1



Il nome, in quanto concetto che di una persona abbiamo, e dunque in quanto esito di una categorizzazione, è sulle labbra di tutti. Muove anche dalle punte degli indici indicanti.
Nel parlare e nell’indicare compiamo sempre un tracciare limiti. La parola racchiude il fenomeno, più o meno precisamente, più o meno rispettosamente, all’interno di un determinato orizzonte. Lo stesso avviene nell’indicare. Puntare il dito ha come sua conseguenza necessaria un’imposizione ontologica ( tu, che indico, sei questo, non quello ) e spaziale ( tu sei qui, non altrove ).
Nominare e puntare il dito sono dunque forzature, imposizioni, al fenomeno. Abbiamo dunque a che fare con atti definitori. Il ‘definire’ è il porre limiti, porre confini ( de-finis ).
Qualsiasi classificazione definitoria (razziale: bianco, nero, asiatico ; politica: ‘di sinistra’, ‘di destra’, ecc) applica un duplice procedimento: quello dell’imporre un nome, e quello della banalizzazione generalizzante.
Nel riempire un qualsiasi modulo, mi riscopro in quanto referente di infiniti nomi, infiniti appellativi, standardizzati e standardizzanti. Celibe o nubile. Disoccupato, impiegato, studente. Fumatore, non fumatore.
La banalizzazione è l’introduzione forzata all’interno del dominio dell’abituale, del diffuso. Il fenomeno (nell’esempio della compilazione del modulo, il fenomeno-uomo, il fenomeno quale io sono) è categorizzato; gli è dunque imposta un’identità, una forma d’essere pre-definita dalle leggi e dalle convenzioni.
Ingiustamente o meno, egli è considerato solo alla luce del suo essere in una determinata maniera, secondo una specifica e parziale ‘postura ontologica’.

L’innocente domanda come ti chiami? È il tentativo inconscio di costringere il fenomeno-individuo, la persona che ci è innanzi, all’interno del concetto che di lei andiamo costruendo. Ed in assenza di quella persona, di lei rimane solo questo concetto, questo ricordo.
Ed il poco innocente celarsi dietro ai falsi nomi, agli pseudonomi, di cui furfanti e scrittori di tutti i temi sanno tutto, è invece il tentativo di fuggire al proprio io in quanto concetto assemblato da altri. In un trionfo di camuffamento, un nuovo nome introduce immediatamente ad un nuovo io.
Abbiamo poca o nessuna autorità riguardo ai concetti che altri hanno di noi. Poca, anche, rispetto al concetto che abbiamo di noi stessi. Intendo dire che la verità (qualsiasi cosa essa sia), sarà assente in entrambi.
La nostra propria identità, la verità di noi stessi, sarà differente dalla verità che gli altri creano per noi, mediata dalla lente deformante attraverso la quale appariamo ai loro occhi.

Il dominio dello Stato si attua anche e soprattutto mediante l’imposizione della sua attività definitoria. Il concetto che lo Stato ha costruito dei vari fenomeni, è imposto il più capillarmente possibile ai suoi sudditi. Attraverso la riproduzione del fenomeno ora definito (e dunque costretto ad apparire così e non altrimenti), nei telegiornali, nel quotidiani, in tutte le forme della fiction. E più il fenomeno ideato dallo Stato è artificiale, più fiction, telegiornali e quotidiani finiranno con l’assomigliarsi. La menzogna riguardo al fenomeno diviene immediatamente la menzogna del messaggio stesso. Ogni telegiornale che comunica il fenomeno differito, menzognero, non è altro che fiction.


Desiderosi di fuggire l’attività categoriale dello Stato, della massa indicante, alcuni si ritraggono in se stessi, e qui, al loro interno, tentano di salvaguardare il proprio io dalla banalizzazione dominante. Il proprio nome segreto indicherà lo pseudoconcetto che si ha di se stessi, la propria celata verità.
Lo chiamiamo ‘pseudoconcetto’ perché, per quanto riguarda il proprio io, si tenta di limitare la limitazione, di impedire alla definizione di tracciare la soglia invalicabile di ciò che siamo. Di qui anche quel rapido smarrimento, quel perdere le parole, che a volte segue quando ci vengono rivolte domane generali sulla nostra persona. Sei un tipo estroverso?. Domande da quiz di rivista di moda, che si muovono comodamente solo nell’orizzonte della definizione, del superficialmente compreso.

Al di là delle solide pareti del concetto, si agita il mare tempestoso ( già, chissà con quale spirito, contemplato da Kant dalle forse un poco grigie spiagge della sua Isola della Ragione) dell’indefinibile, del fuggevole, dell’inesprimibile.

E se per muoverci nello spazio che condividiamo con gli altri esseri umani, per comprenderci l’un l’altro, per rispondere a sciocche domande cieche, possiamo accettare categorie e definizioni, per quanto riguarda la verità di ciò che crediamo (con tutte le nostre fedi personali) essere l’autentico, questo noi lo riponiamo al di là di queste salde mura, fra i flutti inquieti di quel mare in tempesta.




1M. Heidegger, Sein Und Zeit §9.

sabato 26 gennaio 2008

Racconta Borges.







Racconta Borges, nel primo dei saggi che compongono le sue Altre Inquisizioni, dell'imperatore cinese Shih Huang Ti, re di Tsin, colui che ordinò la costruzione della 'quasi infinita muraglia cinese'. Altra storica impresa di Shih Huang Ti fu di natura paradossalmente anti-storica. Ordinò infatti, alla già millenaria tradizione culturale cinese, di bruciare tutti i suoi libri. Coloro che tentassero di nasconderli e di salvaguardarli dalle fiamme imperiali, venivano marchiati a fuoco, e condannati a lavorare, fino alla loro morte, alla costruzione della sterminata muraglia.

Borges rintraccia nelle due azioni una grandiosa simmetria, che si estende da un lato nello spazio, dall'altro, nel tempo. Il vasto impero doveva esser delimitato entro la ciclopica struttura di pietra, limite e protezione delle terre di Shih Huang Ti, il quale crea lo spazio del suo dominio nel momento in cui lo limita. Ma perché il suo potere fosse esteso in tutte le dimensioni, il re di Tsin ordina anche la cancellazione della memoria del suo popolo, mediante il rogo dei libri. Il tempo, da questo momento, ha origine con lui. E coloro che rifiutavano di separarsi dal tempo passato, finivano per glorificarlo nello spazio. Assunse il nome di Primo Imperatore, e ordinò che i suoi successori venissero chiamati Secondo Imperatore, Terzo Imperatore, e così via.

La Grande Muraglia misura circa 6.350 km, e copre la distanza fra il passo di Shanghai ad est, ed i laghi salati di Lop Lur ad ovest.

I due concetti di distanza e misura sono qui intesi nella loro accezione più comune. La distanza è lo spazio che separa due punti, due luoghi, due persone. La retta che congiunge il punto A con il punto B; la linea tortuosa che unisce due città. La misura è la quantificazione di questa distanza, mediante unità stabilite, frammenti d'estensione fissati arbitrariamente, e riportati su, o tramite, i nostri strumenti tecnici di misurazione. Il metro è stato definito nel 1791 come la diecimilionesima parte della distanza fra polo nord ed equatore, lungo la superficie terrestre, calcolata sul meridiano di Parigi. Successivamente, e parallelamente allo sviluppo tecnico, il metro è stato prima definito mediante la lunghezza di due linee incise su una barra campione di platino-iridio conservata a Sèvres presso Parigi, nel 1889. La scoperta del laser, nel 1983, favorì l’introduzione di una definizione del metro in base alla distanza percorsa dalla luce nel vuoto in 1/299 792 458 di secondo. Questo tipo di definizione venne ritenuta più stabile ed affidabile, rispetto a quelle fondate sull’estensione terrestre, o sulla presenza di una barra metallica in un museo.

Può essere interessante notare che per determinare una definizione del metro, in tempi recenti, ci si è allontanati progressivamente dal mondo naturale. Inizialmente la si cerca nella terra, nella sua superficie. Poi, in un prodotto tecnico presente ai sensi. Infine, in un’astrazione scientifica (non è possibile verificare ad occhio nudo lo spostarsi della luce in lassi di tempi infinitesimali).

Ma la distanza posta dall’estensione della muraglia non è solamente quella impressionante fra i suoi due punti più distanti, quella che dovesse percorrere colui che intendesse misurarla coi suoi passi. Nell’erigere il monumento, il re di Tsin crea ed afferma una distanza metafisica[1] (in quanto non soggetta a misurazioni di tipo fisico-matematico). È la ‘distanza’ che lo separa dai suoi sudditi, e forse anche da qualsiasi altro uomo sul pianeta. Non vi è modo di varcare la soglia di questa distanza. Non vi è alcuna prossimità possibile fra il suddito, l’uomo qualsiasi, ed il re di Tsin.

La misura della sua statura è fondata in questa distanza. Shih Huang Ti, ormai irraggiungibile, è misura dell’insignificanza di chi è altro-da-lui. Ad ogni pietra posata, gli schiavi dell’imperatore se se allontanano irrimediabilmente.

Una delle particolarità di questa distanza metafisica-ontologica è quella che potremmo definire prospettiva invertita. Nel mondo fenomenico, un osservatore posto sulla poppa di una nave, in treno, o in automobile, vede che gli oggetti all’esterno, dirigendosi verso il punto di fuga, appaiono diminuire di dimensioni. La nostalgia indeterminata, la malinconia in motu, per così dire, che coglie il viaggiatore d’un tempo, è rintracciabile nelle facili metafore suscitate dall’allontanarsi di ciò che scorre fuori dal finestrino, dalla costa che si ritrae dal suo orizzonte, rimpicciolendo e scomparendo.

Delle tante caratteristiche di una distanza non fisica, una è dunque forse quella di non conoscere un punto di fuga, di non scomparire al di là di un orizzonte. Chiuso nel palazzo imperiale, e assente agli occhi dei suoi sudditi, il sovrano non è per questo meno colossale innanzi alle loro coscienze. La sua inavvicinabilità ha l’effetto di ingigantirlo.

Di questo sono ben consapevoli, ad esempio, coloro che amano, o odiano, a distanza. Colei, o colui, che suscita questo sentimento è sempre, per così dire, presente in absentia.

La misura di tale distanza sembra produrre una differenza ontologica, in quanto pone distinzioni essenziali fra i due ‘punti’ che ne sono alle estremità.

Delle polarità apparentemente inavvicinabili, (ma forse è meglio dire inassimilabili, per mantenere l’accento sulla diversificazione costitutiva fra questi poli), quelle che appaiono come più fondamentali, proprio in quanto ricche di ‘misure’ con cui l’uomo di volta in volta si raffronta, sono la distanza fra uomo e natura, uomo e dio, uomo e il suo prodotto.

Dire che i due poli siano apparentemente inavvicinabili, è un esito della storia contemporanea. Significa affermare che, nel susseguirsi delle vicende umane, le distanze di questo tipo abbiano conosciuto una ‘compressione’, un avvicinamento, tale da poter vanificare la misura che queste distanze recano in sé.

Due uomini del ventunesimo secolo, posto l’uno in Antartide, l’altro al polo nord, possono comunicare istantaneamente tramite e-mail, messaggistica istantanea, video conferenza, o telefono. La tecnica ha diminuito la distanza che li separa. Si mantiene, è vero, quella distanza fisica, estesa e misurabile, fatta di oceani e città, di vette innevate e deserti, che impedisce ai due uomini di toccarsi. Tatto e olfatto rimangono insoddisfatti. Ma essi possono vedersi e ascoltarsi. Inoltre, e in maniera più fondamentale, questa lontananza tattile, potrebbe rivelarsi priva di effetti, e quindi d’importanza, in un mondo tecnico, un mondo come prodotto dell’intelletto umano.

Un abitante di questo mondo possibile, ha ormai poco da spartire con l’uomo sfinito e marchiato a fuoco, che misura con lo sforzo fisico il dispiegarsi della Muraglia attraverso le vaste terre della Cina, e la statura temibile del suo imperatore assente.



[1] Il termine metafisica è, qui ed in seguito, inteso nel significato di ‘inappartenente al mondo fisico-esteso’.

 
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