domenica 27 gennaio 2008

Nomi Segreti.


Molte culture adottano quello che può essere definito un nome segreto.
Generalizzando, esso consiste nell' appellativo sconosciuto a tutti, tranne a colui che lo possiede (o è da esso posseduto). Questo è forse il nome con cui si presenterà al Dio, al termine della sua vita. Secondo gli antichi egizi, dimenticare questo nome era, nell’oltretomba, pericolosissimo. Si rischiava di smarrire se stessi.
Esso dunque racchiude la verità più intima del soggetto, celata agli occhi della folla, la quale si riferirà a lui usando, invece, il suo ‘nome pubblico’, quello che, grammaticalmente, chiameremmo ‘nome proprio di persona’. Che, qui, proprio non è.

Il nome di una persona è anche il nome del concetto che di quella persona abbiamo costruito. Mi riferisco a Socrate ( o a Luigi, o Oscar ), mediante questo suo ‘nome proprio di persona’. Esso è riferito al concetto di Socrate. A Socrate come concetto. I suoi attributi ( per come sono stati da me categorizzati ) sono racchiusi nel concetto che lego al suo nome.
Il nome è dunque un qualcosa che ha affinità con la nozione di concetto. Similmente ad esso, in campo teoretico, esso rimanda all’universale, all’ovunque presente. Come i concetti, esso è determinato e costruito mediante categorie.
Heidegger richiama l’attenzione sull’etimologia del termine categoria:


“(...) Il kategoreisthai è l’interpellanza preliminare dell’ente nel discutere (logos) dell’ente. Esso significa innanzi tutto: accusare pubblicamente, dire qualcosa in faccia a qualcuno davanti a tutti. ”1



Il nome, in quanto concetto che di una persona abbiamo, e dunque in quanto esito di una categorizzazione, è sulle labbra di tutti. Muove anche dalle punte degli indici indicanti.
Nel parlare e nell’indicare compiamo sempre un tracciare limiti. La parola racchiude il fenomeno, più o meno precisamente, più o meno rispettosamente, all’interno di un determinato orizzonte. Lo stesso avviene nell’indicare. Puntare il dito ha come sua conseguenza necessaria un’imposizione ontologica ( tu, che indico, sei questo, non quello ) e spaziale ( tu sei qui, non altrove ).
Nominare e puntare il dito sono dunque forzature, imposizioni, al fenomeno. Abbiamo dunque a che fare con atti definitori. Il ‘definire’ è il porre limiti, porre confini ( de-finis ).
Qualsiasi classificazione definitoria (razziale: bianco, nero, asiatico ; politica: ‘di sinistra’, ‘di destra’, ecc) applica un duplice procedimento: quello dell’imporre un nome, e quello della banalizzazione generalizzante.
Nel riempire un qualsiasi modulo, mi riscopro in quanto referente di infiniti nomi, infiniti appellativi, standardizzati e standardizzanti. Celibe o nubile. Disoccupato, impiegato, studente. Fumatore, non fumatore.
La banalizzazione è l’introduzione forzata all’interno del dominio dell’abituale, del diffuso. Il fenomeno (nell’esempio della compilazione del modulo, il fenomeno-uomo, il fenomeno quale io sono) è categorizzato; gli è dunque imposta un’identità, una forma d’essere pre-definita dalle leggi e dalle convenzioni.
Ingiustamente o meno, egli è considerato solo alla luce del suo essere in una determinata maniera, secondo una specifica e parziale ‘postura ontologica’.

L’innocente domanda come ti chiami? È il tentativo inconscio di costringere il fenomeno-individuo, la persona che ci è innanzi, all’interno del concetto che di lei andiamo costruendo. Ed in assenza di quella persona, di lei rimane solo questo concetto, questo ricordo.
Ed il poco innocente celarsi dietro ai falsi nomi, agli pseudonomi, di cui furfanti e scrittori di tutti i temi sanno tutto, è invece il tentativo di fuggire al proprio io in quanto concetto assemblato da altri. In un trionfo di camuffamento, un nuovo nome introduce immediatamente ad un nuovo io.
Abbiamo poca o nessuna autorità riguardo ai concetti che altri hanno di noi. Poca, anche, rispetto al concetto che abbiamo di noi stessi. Intendo dire che la verità (qualsiasi cosa essa sia), sarà assente in entrambi.
La nostra propria identità, la verità di noi stessi, sarà differente dalla verità che gli altri creano per noi, mediata dalla lente deformante attraverso la quale appariamo ai loro occhi.

Il dominio dello Stato si attua anche e soprattutto mediante l’imposizione della sua attività definitoria. Il concetto che lo Stato ha costruito dei vari fenomeni, è imposto il più capillarmente possibile ai suoi sudditi. Attraverso la riproduzione del fenomeno ora definito (e dunque costretto ad apparire così e non altrimenti), nei telegiornali, nel quotidiani, in tutte le forme della fiction. E più il fenomeno ideato dallo Stato è artificiale, più fiction, telegiornali e quotidiani finiranno con l’assomigliarsi. La menzogna riguardo al fenomeno diviene immediatamente la menzogna del messaggio stesso. Ogni telegiornale che comunica il fenomeno differito, menzognero, non è altro che fiction.


Desiderosi di fuggire l’attività categoriale dello Stato, della massa indicante, alcuni si ritraggono in se stessi, e qui, al loro interno, tentano di salvaguardare il proprio io dalla banalizzazione dominante. Il proprio nome segreto indicherà lo pseudoconcetto che si ha di se stessi, la propria celata verità.
Lo chiamiamo ‘pseudoconcetto’ perché, per quanto riguarda il proprio io, si tenta di limitare la limitazione, di impedire alla definizione di tracciare la soglia invalicabile di ciò che siamo. Di qui anche quel rapido smarrimento, quel perdere le parole, che a volte segue quando ci vengono rivolte domane generali sulla nostra persona. Sei un tipo estroverso?. Domande da quiz di rivista di moda, che si muovono comodamente solo nell’orizzonte della definizione, del superficialmente compreso.

Al di là delle solide pareti del concetto, si agita il mare tempestoso ( già, chissà con quale spirito, contemplato da Kant dalle forse un poco grigie spiagge della sua Isola della Ragione) dell’indefinibile, del fuggevole, dell’inesprimibile.

E se per muoverci nello spazio che condividiamo con gli altri esseri umani, per comprenderci l’un l’altro, per rispondere a sciocche domande cieche, possiamo accettare categorie e definizioni, per quanto riguarda la verità di ciò che crediamo (con tutte le nostre fedi personali) essere l’autentico, questo noi lo riponiamo al di là di queste salde mura, fra i flutti inquieti di quel mare in tempesta.




1M. Heidegger, Sein Und Zeit §9.

sabato 26 gennaio 2008

Racconta Borges.







Racconta Borges, nel primo dei saggi che compongono le sue Altre Inquisizioni, dell'imperatore cinese Shih Huang Ti, re di Tsin, colui che ordinò la costruzione della 'quasi infinita muraglia cinese'. Altra storica impresa di Shih Huang Ti fu di natura paradossalmente anti-storica. Ordinò infatti, alla già millenaria tradizione culturale cinese, di bruciare tutti i suoi libri. Coloro che tentassero di nasconderli e di salvaguardarli dalle fiamme imperiali, venivano marchiati a fuoco, e condannati a lavorare, fino alla loro morte, alla costruzione della sterminata muraglia.

Borges rintraccia nelle due azioni una grandiosa simmetria, che si estende da un lato nello spazio, dall'altro, nel tempo. Il vasto impero doveva esser delimitato entro la ciclopica struttura di pietra, limite e protezione delle terre di Shih Huang Ti, il quale crea lo spazio del suo dominio nel momento in cui lo limita. Ma perché il suo potere fosse esteso in tutte le dimensioni, il re di Tsin ordina anche la cancellazione della memoria del suo popolo, mediante il rogo dei libri. Il tempo, da questo momento, ha origine con lui. E coloro che rifiutavano di separarsi dal tempo passato, finivano per glorificarlo nello spazio. Assunse il nome di Primo Imperatore, e ordinò che i suoi successori venissero chiamati Secondo Imperatore, Terzo Imperatore, e così via.

La Grande Muraglia misura circa 6.350 km, e copre la distanza fra il passo di Shanghai ad est, ed i laghi salati di Lop Lur ad ovest.

I due concetti di distanza e misura sono qui intesi nella loro accezione più comune. La distanza è lo spazio che separa due punti, due luoghi, due persone. La retta che congiunge il punto A con il punto B; la linea tortuosa che unisce due città. La misura è la quantificazione di questa distanza, mediante unità stabilite, frammenti d'estensione fissati arbitrariamente, e riportati su, o tramite, i nostri strumenti tecnici di misurazione. Il metro è stato definito nel 1791 come la diecimilionesima parte della distanza fra polo nord ed equatore, lungo la superficie terrestre, calcolata sul meridiano di Parigi. Successivamente, e parallelamente allo sviluppo tecnico, il metro è stato prima definito mediante la lunghezza di due linee incise su una barra campione di platino-iridio conservata a Sèvres presso Parigi, nel 1889. La scoperta del laser, nel 1983, favorì l’introduzione di una definizione del metro in base alla distanza percorsa dalla luce nel vuoto in 1/299 792 458 di secondo. Questo tipo di definizione venne ritenuta più stabile ed affidabile, rispetto a quelle fondate sull’estensione terrestre, o sulla presenza di una barra metallica in un museo.

Può essere interessante notare che per determinare una definizione del metro, in tempi recenti, ci si è allontanati progressivamente dal mondo naturale. Inizialmente la si cerca nella terra, nella sua superficie. Poi, in un prodotto tecnico presente ai sensi. Infine, in un’astrazione scientifica (non è possibile verificare ad occhio nudo lo spostarsi della luce in lassi di tempi infinitesimali).

Ma la distanza posta dall’estensione della muraglia non è solamente quella impressionante fra i suoi due punti più distanti, quella che dovesse percorrere colui che intendesse misurarla coi suoi passi. Nell’erigere il monumento, il re di Tsin crea ed afferma una distanza metafisica[1] (in quanto non soggetta a misurazioni di tipo fisico-matematico). È la ‘distanza’ che lo separa dai suoi sudditi, e forse anche da qualsiasi altro uomo sul pianeta. Non vi è modo di varcare la soglia di questa distanza. Non vi è alcuna prossimità possibile fra il suddito, l’uomo qualsiasi, ed il re di Tsin.

La misura della sua statura è fondata in questa distanza. Shih Huang Ti, ormai irraggiungibile, è misura dell’insignificanza di chi è altro-da-lui. Ad ogni pietra posata, gli schiavi dell’imperatore se se allontanano irrimediabilmente.

Una delle particolarità di questa distanza metafisica-ontologica è quella che potremmo definire prospettiva invertita. Nel mondo fenomenico, un osservatore posto sulla poppa di una nave, in treno, o in automobile, vede che gli oggetti all’esterno, dirigendosi verso il punto di fuga, appaiono diminuire di dimensioni. La nostalgia indeterminata, la malinconia in motu, per così dire, che coglie il viaggiatore d’un tempo, è rintracciabile nelle facili metafore suscitate dall’allontanarsi di ciò che scorre fuori dal finestrino, dalla costa che si ritrae dal suo orizzonte, rimpicciolendo e scomparendo.

Delle tante caratteristiche di una distanza non fisica, una è dunque forse quella di non conoscere un punto di fuga, di non scomparire al di là di un orizzonte. Chiuso nel palazzo imperiale, e assente agli occhi dei suoi sudditi, il sovrano non è per questo meno colossale innanzi alle loro coscienze. La sua inavvicinabilità ha l’effetto di ingigantirlo.

Di questo sono ben consapevoli, ad esempio, coloro che amano, o odiano, a distanza. Colei, o colui, che suscita questo sentimento è sempre, per così dire, presente in absentia.

La misura di tale distanza sembra produrre una differenza ontologica, in quanto pone distinzioni essenziali fra i due ‘punti’ che ne sono alle estremità.

Delle polarità apparentemente inavvicinabili, (ma forse è meglio dire inassimilabili, per mantenere l’accento sulla diversificazione costitutiva fra questi poli), quelle che appaiono come più fondamentali, proprio in quanto ricche di ‘misure’ con cui l’uomo di volta in volta si raffronta, sono la distanza fra uomo e natura, uomo e dio, uomo e il suo prodotto.

Dire che i due poli siano apparentemente inavvicinabili, è un esito della storia contemporanea. Significa affermare che, nel susseguirsi delle vicende umane, le distanze di questo tipo abbiano conosciuto una ‘compressione’, un avvicinamento, tale da poter vanificare la misura che queste distanze recano in sé.

Due uomini del ventunesimo secolo, posto l’uno in Antartide, l’altro al polo nord, possono comunicare istantaneamente tramite e-mail, messaggistica istantanea, video conferenza, o telefono. La tecnica ha diminuito la distanza che li separa. Si mantiene, è vero, quella distanza fisica, estesa e misurabile, fatta di oceani e città, di vette innevate e deserti, che impedisce ai due uomini di toccarsi. Tatto e olfatto rimangono insoddisfatti. Ma essi possono vedersi e ascoltarsi. Inoltre, e in maniera più fondamentale, questa lontananza tattile, potrebbe rivelarsi priva di effetti, e quindi d’importanza, in un mondo tecnico, un mondo come prodotto dell’intelletto umano.

Un abitante di questo mondo possibile, ha ormai poco da spartire con l’uomo sfinito e marchiato a fuoco, che misura con lo sforzo fisico il dispiegarsi della Muraglia attraverso le vaste terre della Cina, e la statura temibile del suo imperatore assente.



[1] Il termine metafisica è, qui ed in seguito, inteso nel significato di ‘inappartenente al mondo fisico-esteso’.

 
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